S.03 | Intramuralia

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23 novembre 2014

In continuità con le riflessioni emerse da S.02 SPRAY STREET, abbiamo invitato due guide a condurci nell’osservazione di una parte della città, raccontandoci storie raccolte attraverso esperienze, progetti e passioni personali. La città come libro aperto, propulsore inesauribile di narrative.


LUOGHI

COME FUNZIONA

Se una parte di mondo contemporaneo lascia il segno della propria esistenza e del proprio passaggio sui muri, innescando dinamiche e pensieri tanto fecondi quanto conflittuali se contrapposti ai valori del decoro e della pulizia, ci siamo calati nuovamente nella dimensione fisica e storica della città, a Bologna, per ascoltare chi ne conosce i racconti “sotto la superficie dei muri”.

Partendo da piazza Santo Stefano, siamo stati guidati da Mario Rizzoli, intenditore di “menate” (come lui stesso laicamente definisce le mille trame storiche addensate nelle strutture di carattere storico-religioso), in realtà appassionato conoscitore delle vicende storiche della sua città. Mario ci ha prestato il suo punto di vista accompagnandoci nel gruppo delle cosiddette “sette chiese” (in realtà quattro) raccontandoci attraverso una precisa scomposizione degli elementi urbanistici e architettonici la provenienza e le supposizioni attorno alla loro presenza, composizione e trasformazione d’uso. E da lì, ci ha fatto poi osservare l’insieme degli spazi che si estendono dalle chiese a San Giovanni in Monte. Un percorso denso e preciso. Rilevante in questo andare è stato il pazientare su dettagli apparentemente esausti (la bella piazza, le articolate chiese) e scoprirne storie estremamente profane, quindi germinanti: profana è la genesi dei portici (area privata ad uso pubblico) strumento spaziale della mercanzia; profani sono gli stili delle facciate di Santo Stefano che portano i segni di mille trasformazioni nei secoli creando complessità; profanata è la (presunta) purezza degli spazi e degli oggetti sacri per le medesime trasformazioni e sovrapposizioni, impensabili nell’approccio restaurativo italiano; profano l’abuso delle reliquie e degli oggetti da parte del clero e dei politici di allora per catturare l’attenzione dei pellegrini manipolandone la fede. E vedere, per il medesimo fine, una parte di Bologna (il percorso Santo Stefano – San Giovanni in Monte) modellizzata sulla spazialità di Gerusalemme, riproducendo la sequenza Santo Sepolcro – Golgota per volontà di Petronio, poi divenuto santo patrono della città, ma passando attraverso l’ira pontificia che fece distruggere un soffitto del complesso ecclesiastico per riportare la centralità dei pellegrinaggi su Roma e sui percorsi ufficiali. E poi il palazzo distrutto sulle cui rovine sorgono i Giardini del Guasto (guasto= distruzione), contemporaneo agli accampamenti militari longobardi che hanno dato la forma urbana all’area tra le due torri e porta Mazzini… una storia per nulla “decorosa”.

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In un secondo momento ci siamo trasferiti al Menomale accolti da Marco “Mago” Magagnoli, fondatore e gestore del locale, e dell’omonima associazione culturale, dove già trovarono i natali le officine Maserati in via De Pepoli (o “via del jazz” per la proliferazione di jazz club sino poche decine di anni fa). Marco ci ha introdotti in un discorso di carattere filosofico tra materiale e immateriale, partendo dalla sua fascinazione per la storia di Jackson Pollock: abbandonato il dripping, si dedicò privatamente a una sorta di action-driving: sulla scia concettuale dell’action-painting cominciò a tracciare strani percorsi guidando l’auto per le strade di New York, in particolare nella zona di Coney Island. Presumibilmente durante uno di questi drift notturni, perse la vita in un incidente stradale. E agganciando il discorso a come la sorveglianza alla quale siamo tutti sottoposti, malgrado la nostra volontà, attraverso il segnale gps degli smartphone e il loro flusso di dati (messaggi, immagini, ecc.), ci ha invitati a immaginare “un gioco in cui siamo noi a decidere cosa tracciare, disegnando strane traiettorie nello spazio della mappa urbana”, sollecitati a modificare i nostri percorsi quotidiani: visto che siamo continuamente descritti, abbiamo anche la possibilità di descrivere. “La tag sul muro ha ancora un senso?”, chiede Marco, “…perché non piuttosto una tag sulla macchina stessa, sulla mappa? Questo sarebbe un modo per ingannare il sistema e l’algoritmo e andare contro il risparmio cognitivo del tragitto più breve: in modo consapevole traccio e mi faccio leggere”.

Roberto Di Rocco ci ha quindi portato, in contrappunto, l’esempio spiazzante del suo amico e collega Riccardo che, irremovibile, non si vuole dotare di cellulare, né smart né di alcun genere: per rintracciarlo bisogna triangolare una serie di telefonate in radio-poppa tra uffici, amici e parenti, un’anomalia “Heisemberghiana” che ribalta la prospettiva di Marco: l’assenza di segnale. La persona tale e quale, senza il suo strato di narrazione digitale, rapidamente diventato imprescindibile come una gabbia invisibile e pervasiva.

Tirando le somme, qualche domanda per giocare con le gabbie:.


Qual è il connubio più fecondo tra le esperienze della città e le sue rappresentazioni?
Cosa vale la pena descrivere, condividere, archiviare e cosa disperdere nell’effimero temporale?
E il fare luogo?
Quanto è importante coltivare una curiosità quotidiana foriera di densità narrative?

S.tagione coordinata da: Alessandra Chinni, Sara Montani